Ultimamente – soprattutto grazie al lavoro di Conto Alla Rovescia – stiamo utilizzando molto la parola resilienza. Nonostante il termine sia per noi ormai scontato, e a dispetto di una sua sempre più vasta diffusione, ci siamo però resi conto che il suo significato non è sempre ovvio…
Per questo abbiamo deciso di provare a fare un po’ di chiarezza insieme, partendo dalla storia della parola resilienza per arrivare ad una sua definizione pratica.
Il termine resilienza, così come l’aggettivo derivato resiliente, sembrano essere documentata nell’italiano “tecnologico” da almeno un paio di secoli: si dice resiliente un materiale capace di assorbire un urto tornando elasticamente alla sua posizione iniziale.
Non a caso i linguisti ne scorgono le origini in resiliens, participio passato di resilire, cioè saltare indietro, anche se non mancano etimologie alternative dal forte sapore psicologico, come quella proposta da Pietro Trabucchi che la collega al verbo resalio, cioè risalire (per esempio su una barca rovesciata dalle onde del mare).
Sia come sia, poche parole come questa hanno avuto nell’ultimo ventennio tanta fortuna.
Complice anche il successo dell’analogo termine inglese (resilience), questo termine è evaso dalle aule degli ingegneri per invadere prepotentemente tanti altri ambiti specialistici: psicologia, ecologia, economia, informatica, sociologia, politica.
Questo dipende in parte dal fascino anche sonoro di un termine che sembra molto più dotto di resistente e molto più ricercato di flessibile, aggettivi che resiliente sostituisce, integra ed amplia.
Come scrive Andrea Beltrama:
“La resilienza è diventata una buzzword: una parola magica, versatile, puramente evocativa. Il cui impatto comunicativo è in gran parte slegato dal significato letterale. Per il solo fatto di essere proferita, riesce a imprimere al nostro discorso forza e profondità, incarnando le qualità più diverse.
E così, la Copenaghen resiliente ce la immaginiamo affascinante, sinuosa, molto ecologica; un rock resiliente è dolce, sofferto, sottilmente innovativo; e un pensionato resiliente è presumibilmente sveglio, vissuto, che attende sornione per poi contrattaccare.
Si intravvede ancora un timido legame con lo studio dei materiali e i sistemi: quell’idea di essere più forti delle circostanze, di sapersi adattare senza perdere l’identità, adottata peraltro aggressivamente in discorsi motivazionali e video di coaching mentale sparsi per la rete. Ma quello che era un brutale concetto meccanico è ora diventato un ideale estetico e morale. (fonte)”
Ma a mio avviso la causa principale di questo inaspettato successo va cercata proprio nella natura sistemica del termine: detto altrimenti, non è stato applicato a diversi ambiti perché è piaciuto a tanti, ma è piaciuto a tanti perché descriveva in modo perfetto una caratteristica tipica dei sistemi complessi che sopravvivono.
Pensiamo al sistema economico-politico-ecologico mondiale, in cui diventa sempre più difficile separare l’emergenza climatica dalle crisi finanziarie, lo sfruttamento sociale dalla sicurezza alimentare, la deforestazione dalle strategie politiche, l’estinzione di massa dalle energie rinnovabili.
Ecco: in un macrosistema ultra-complesso come quello in cui viviamo, in cui dobbiamo quotidianamente “affrontare con umiltà l’incomprensibile complessità, l’interconnessione e la volatilità del mondo moderno” (Zolli – Healy), la resilienza riassume e identifica un grosso bisogno emergente che non possiamo ignorare.
Questo bisogno è
- globale, perché riguarda ogni singolo essere umano, a prescindere dalla sua cultura o dal luogo in cui vive;
- multifattoriale, perché dipende da diversi fattori (economici, sociali, ecologici, psicologici, scientifici, etc.);
- critico, perché dalla resilienza che saremo in grado di sviluppare, come singoli e come gruppi, dipende la nostra sopravvivenza, in modi che fino ad appena 50 anni fa erano letteralmente inimmaginabili.
E il merito storico di aver caldeggiato l’indiscutibile valore della resilienza come concetto chiave (come meme, direbbero alcuni) per affrontare le sempre più drammatiche crisi moderne, va certamente alla Transition.
Sviluppatosi come costola della famosa Permacultura di Bill Mollison e David Holmgren, il movimento Transition Town viene creato nel 2005 a Totnes, Inghilterra, dall’ambientalista Rob Hopkins, con l’obiettivo di preparare le comunità ad affrontare la doppia sfida del riscaldamento globale e dalla diminuzione prevedibile dei combustibili fossili (picco del petrolio).
In una parola: diventare più resilienti rispetto ai cambiamenti indotti dal cambiamento dei consumi e dall’emergenza climatica.
Ed è in questa ottica sistemica che il termine Resilienza funziona meglio.
Per stabilire nuove linee guida di comportamento efficaci ed efficienti (non solo finanziariamente) per politici, leader e imprenditori. Ma soprattutto – come sempre – per capire in quale direzione ci conviene muoverci come individui responsabili del proprio futuro.
Non a caso il termine ha avuto un enorme successo sia nella relazione di aiuto (una persona psicologicamente resiliente è una persona automaticamente più centrata e felice), sia nei movimenti alternativi al consumismo scellerato fine a se stesso, come la Decrescita e il Downshifting (che partono dalla presupposizione secondo la quale avere di più non significa vivere meglio, anzi).
Dalla resilienza psicologica, sociale, organizzativa e naturale dipende dunque la nostra felicità e la nostra sopravvivenza.
Ma come definire questa resilienza “umana” in modo completo?
Secondo Andrew Zolli e Ann Marie Healy, autori nel 2010 del libro “Resilienza. La scienza di adattarsi ai cambiamenti“, la resilienza è
“la capacità di un sistema, di un’impresa o di una persona di conservare la propria integrità e il proprio scopo fondamentale di fronte a una drastica modificazione delle circostanze.
Per comprendere tale definizione, soffermiamoci su una metafora molto comune nelle ricerche sulla resilienza. Proviamo a raffigurare un vasto paesaggio di colline e vallate immaginarie che si estendono in ogni direzione.
Un po’ come in una fantasia di Borges, ogni valle di questo panorama presenta una variazione significativa rispetto alla nostra attuale situazione, è una realtà alternativa con caratteristiche uniche, opportunità, risorse e pericoli propri.
Ogni collina può invece essere vista come la soglia critica o il confine che separa questi mondi: una volta superata la sua cresta, ci ritroveremo inesorabilmente a rotolare, nel bene o nel male, nella valle esistenziale adiacente.
In alcune di queste nuove circostanze, la nostra vita potrebbe essere piuttosto facile; in altre, potremmo trovarci di fronte a sfide più impegnative; in altre ancora, poi, la realtà potrebbe rivelarsi tanto problematica da precludere quasi l’adattamento.
Come accade nella vita concreta, gravi e improvvisi sconvolgimenti potrebbero «far saltare» al di là della soglia che separa l’attuale situazione da un nuovo contesto: potremmo, per esempio, essere vittima di un’inondazione o di una siccità, di un’invasione o di un terremoto; o, magari, la valle potrebbe diventare troppo disabitata o al contrario sovraffollata.
La nostra impresa potrebbe risentire di uno shock del sistema economico o energetico, di un cambiamento della tecnologia o della concorrenza, di un’improvvisa carenza di materie prime o di nuovi costi legati a fattori ambientali in precedenza ignorati. E, purtroppo, molte di queste soglie si oltrepassano in un’unica direzione, facendoci sperimentare l’impossibilità di tornare alla condizione precedente.
In poche parole, ci ritroveremmo in un’altra normalità.
Migliorare la propria resilienza significa rafforzare la capacità di resistere alle spinte che potrebbero allontanarci dalla nostra valle preferita, espandendo al contempo il ventaglio delle alternative che saremmo in grado di affrontare qualora costretti. È quello che i ricercatori chiamano «preservare l’abilità adattiva» ovvero la capacità di adattarsi a nuove circostanze mantenendo il proprio scopo fondamentale. In un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla volatilità e da sconvolgimenti imprevedibili, si tratta di un talento chiave.
Com’è ovvio, ci sono molti modi di allargare la gamma delle proprie nicchie abitabili. Per esempio, ridurre le necessità materiali per poter sopravvivere con risorse più scarse; imparare a usare una più ampia varietà di mezzi, in modo da cavarsela (alla MacGyver) con qualsiasi cosa l’ambiente metta a disposizione; inventare una nuova tecnologia che liberi dalle vecchie limitazioni a cui si è assoggettati; adeguare gli strumenti progettati per una nicchia a un’altra; oppure, collaborare con gli abitanti della nuova valle, per non dover affrontare tutto da soli.”
Quindi in pratica, diventare più resilienti significa imparare a fare 2 cose:
1. diventare più resistenti agli urti di un probabile cambiamento drastico nello stile di vita.
In questo senso bisogna lavorare su se stessi, diventando più abili a gestire le proprie emozioni e i propri pensieri, ma anche trovando dei percorsi di crescita spirituale in grado di accettare e comprendere in una prospettiva più ampia disagi e problemi.
2. sviluppare una maggiore creatività e una più ampia capacità di problem solving per avere più opzioni da scegliere in situazioni critiche che non abbiamo mai affrontato.
In questo senso è utile cercare di anticipare gli eventi immaginando scenari alternativi possibili, e sviluppando approcci innovativi.
Il tutto tenendo bene a mente che la vera resilienza parte dall’interno di te stesso, ma si sviluppa e si completa solo nella realizzazione di una Community solidale, perché il grado di resilienza effettiva che può darti una rete di amici non potrà mai essere raggiunto lavorando da soli, per quanto tu possa essere brillante, forte e geniale.
Insomma, a prescindere da ciò che pensi dell’Emergenza climatica, la complessità critica della nostra situazione socio-economico e politica dimostra che diventare più resilienti – da soli ma soprattutto in compagnia – è e sarà sempre meno un optional e sempre più una necessità.
Perché la resilienza ci rende più centrati psicologicamente e più felici nelle nostre relazioni, ma soprattutto perché da questa nuova competenza trasversale potrebbe dipendere il tuo futuro e quello delle persone che ami.
🙂
Leonardo Di Paola
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