Siamo in piena crisi climatica!
E anche se intorno a noi quasi tutto tace, in TV continuano a mandare pubblicità demenziali per prodotti assolutamente inutili per non intaccare un autolesionistico status quo che ci vede impegnati a spremere il Pianeta fino alla fine, qualcuno ogni tanto rompe il silenzio per raccontare una storia.
Oggi voglio parlarvi di un romanzo italiano che ho appena finito di leggere tutto di un fiato: “Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia
Questo libro racconta il declino del mondo, lento ed inesorabile, dalle prime foto degli orsi polari in bilico sui ghiacci in scioglimento, ai tentativi disastrosi di intervento con immissioni nell’atmosfera di particelle inquinanti riflettenti…
Dalle invasioni dei profughi del clima alle repressioni xenofobe, dalla disseccante siccità alla fame totale, dal crollo dello stato civile all’esodo di massa verso le pochissime terre ancora vivibili, ormai sottochiave per overload umano.
Una storia visionaria che in qualche modo potevamo prefigurarci tutti, o almeno chiunque abbia approfondito la questione con un briciolo di consapevolezza e si sia fatto un giro in rete consultando i siti e i forum “seri” negli ultimi anni…
Ma solo pochi veri scrittore, come Bruno Arpaia (pluripremiato autore nostrano), potevano riuscire a renderla avvincente.
Ma di cosa parla “Qualcosa, là fuori”?
Il protagonista del romanzo, Livio, neuroscienziato italiano, rimpatriato dopo 18 anni di ricerca in USA per ritrovarsi in una Napoli multirazziale in rivolta, si avvia ormai spezzato e solo in una sorta di carovana della speranza di migranti che – controllata da guardie armate – tenta di attraversare a piedi l’Europa per arrivare in Norvegia.
Questo viaggio estenuante si snoda lungo un mondo ormai distrutto, in un’atmosfera torrida e smoggosa quasi post nucleare da cui il lettore cerca invano di occhieggiare le vestigia del tempo che fu, come i campanili ancora riconoscibili nelle città ormai allagate dal mare tossico, le cinte di Alpi in lontananza che sembrano le uniche sopravvissute all’onnipresente grigiore…
Un viaggio, nonostante tutto, punteggiato da episodi di solidarietà e amore, labili tracce di umanità che resistono laddove migliaia di persone si lasciano morire inermi, senza più forza per proseguire.
E nel frattempo, con una serie incessante di flasback – che riportano la narrazione “a colori” rendendo più fruibile la storia – Livio ricorda la sua vita segnata dalla guerra climatica, collegando con un ponte di fatti inesorabilmente drammatici, la situazione apocalittica in corso, alla nostra bruciante attualità.
“Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia è un romanzo scritto bene, necessario, coinvolgente…
Un libro ricco di parole rotonde, che si legge in poche ore (almeno per una lettrice seriale come me 😉 ), ma che certo… lascia un bel vuoto nello stomaco.
Nonostante questo: consigliatissimo! 🙂
Un romanzo predittivo che va oltre il genere “fantascienza” o “fantaclima“, dato che purtroppo racconta il futuro che ci aspetta a breve, brevissimo termine, se non facciamo qualcosa di risolutivo, che trascenda la (stupida) natura accaparratrice umana.
Un piccolo estratto dell‘incipit…
Nessuno ricordava più con esattezza quando era cominciato tutto. Forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, forse perché si era trattato di una lenta e implacabile alleanza di eventi impercettibili, di alterazioni minime che, almeno in apparenza, cambiavano poco o nulla, finché, quasi di colpo, ci si era ritrovati in quel disastro.
Teoria delle catastrofi: una teoria di fine Novecento, che riguardava i mutamenti improvvisi causati da piccole, successive alterazioni in un sistema, come il passaggio da un bruco a una farfalla, un nuvolone che si trasforma bruscamente in pioggia, ma anche quello sfacelo in cui, quasi senza rendersene conto, il mondo era precipitato.
Livio Delmastro, invece, ricordava.
Ricordava benissimo quando, da bambino, aveva visto la famosa immagine dell’orso polare intrappolato su un pezzo di banchisa, alla deriva tra i ghiacci dell’Artico che cominciavano a sciogliersi: il mondo ricco aveva avuto un brivido.
Di fronte a quella foto, milioni di persone con la pancia piena avevano provato paura, indignazione, terrore dell’apocalisse che si avvicinava… E poi, subito dopo, avevano pensato ad altro.
Ecco, forse era lì che era cominciata tutta quella storia.
Livio aveva ancora nelle orecchie le frettolose discussioni che ne erano seguite, le chiacchiere sulle lampadine a basso consumo e sulla necessità di usare meno le automobili che continuava a sentire dagli adulti e alla televisione.
Ricordava di aver sentito che nel 2015, a Parigi, per la prima volta 195 paesi avevano sottoscritto un accordo globale sul clima: a molti era sembrata una svolta, una vera e propria rivoluzione; e invece, in realtà, gli impegni presi da ogni nazione a ridurre le emissioni di gas serra, comunque insufficienti, erano soltanto volontari; per di più, non c’era nessun organismo che avesse il potere di farli rispettare davvero.
E così la rivoluzione si era trasformata in un fallimento.
Ora tutti sapevano che quegli accorgimenti e quegli accordi erano serviti soltanto a dare alla gente l’impressione di avere un certo controllo sul proprio destino, ma non bastavano, anzi erano stati completamente inutili.
In fondo, l’umanità pensava ancora di poter riparare quella crepa nel muro, senza capire che forse era già tardi: l’incrinatura nella parete si stava allargando e prima o poi il palazzo sarebbe crollato.
Livio era solamente un ragazzino, allora. Viveva a Napoli, andava al primo anno delle superiori, impazziva per la musica wak, si atteggiava a salutista e, come tutti i suoi compagni, si preoccupava moltissimo per l’ambiente, perciò rompeva le scatole ai genitori perché smettessero di fumare o perché gli dessero i soldi da mandare a qualche organizzazione ecologista impegnata a salvare gli orsi polari o l’ornitorinco.
Quando si era iscritto all’università, a diciott’anni, fumava già un pacchetto di sigarette al giorno e aveva capito che il problema non si riduceva agli orsi polari che attaccavano i delfini o ricorrevano al cannibalismo per non morire di fame.
E nemmeno al fatto di dover sopportare estati più calde o qualche tifone caraibico perfino sulle coste dell’Europa occidentale.
C’erano guasti molto più profondi, ma il mondo era preso da altri problemi, anche se tutti, politici compresi, si dicevano ambientalisti, almeno a parole, perché essere «verdi» non costava quasi nulla e faceva guadagnare voti.
In realtà, solo in pochi avevano davvero annusato l’immensità di ciò che li aspettava al varco. Perfino gli esperti dell’Onu, quelli dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, che avevano cominciato a pubblicare regolari rapporti sulla situazione del pianeta, lanciavano allarmi preoccupati e fissavano limiti invalicabili alle emissioni di gas serra, ma non erano riusciti a inserire nelle loro tabelle ogni possibile feedback che forse stava già influendo sul clima, sottovalutando molti fattori di rischio.
La verità è che non sapevano ancora calcolarli. Parlavano di ridurre del cinquanta per cento le emissioni inquinanti, di non superare le 450 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera e di non oltrepassare i due gradi di incremento della temperatura globale, ma solo pochi scienziati d’assalto continuavano a ripetere che quelle misure erano insufficienti, che c’era bisogno di cure più drastiche per evitare il peggio, se pure era ancora possibile evitarlo.
Livio ricordava che all’epoca tutto il dibattito ruotava attorno al cosiddetto «punto di non ritorno»: a quanti gradi di aumento della temperatura media della Terra sarebbe stato oltrepassato?
A quante parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera? E in che anno sarebbe successo, se il mondo non avesse preso delle contromisure? A quei tempi, non si sapeva con certezza.
Si sapeva, però, che una volta superata quella soglia, probabilmente oltre i due o i tre gradi di aumento della temperatura media, il caldo avrebbe fuso i ghiacciai d’acqua dolce della Groenlandia e dell’Antartico occidentale, facendo innalzare i mari e per di più perdendo una vasta superficie riflettente che fino a quel momento aveva rimandato indietro una parte del calore solare; anche il permafrost, il terreno permanentemente ghiacciato alle latitudini più settentrionali, avrebbe cominciato a sciogliersi e a liberare idrato di metano, ventidue volte peggiore dell’anidride carbonica come agente riscaldante, in un effetto combinato sempre più potente.
E a quel punto il riscaldamento globale sarebbe diventato un processo in grado di autoalimentarsi: sarebbe giunto il giorno in cui i meccanismi innescati dall’aumento delle temperature, dal disgelo della tundra e dalla fusione delle calotte artiche si sarebbero sottratti a ogni controllo e avrebbero ricreato il mondo senza il permesso dell’umanità (…)
Qualcosa, là fuori
Bruno Arpaia
Editore: Guanda
Collana: Narratori della Fenice
Anno edizione: 2016
Pagine: 220 p.
Lo trovi qui: https://www.ifeelgood.it/qualcosa
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